Quasi trent'anni fa il celebre etologo inglese Desmond Morris pubblicò un saggio dall'emblematico titolo La tribù del calcio in cui analizzava in chiave antropologica i comportamenti legati alla passione sportiva; il testo riconosceva sostanzialmente al football il carattere di rituale tribale, espressione del conflitto interpersonale e collettivo, ed evoluzione moderna di pratiche e di discipline che in passato hanno conosciuto realizzazioni ben più violente. Tuttavia, osservava Morris, affinché il calcio si strutturi nell'individuo come linguaggio identitario, come codice di gruppo, occorre che la persona sia sprovvista all'interno della società di altri e più stabili orizzonti di senso; che appartenga cioè ad uno strato socialmente periferico, emarginato dai gruppi che detengono la cultura, il denaro e il potere.
Il calcio dunque come mitologia universale di quell'umanità che vive ai margini della ricchezza, strumento di aggregazione e di scontro fisico, di stilizzazione di un'aggressività ancestrale che rischia perpetuamente di manifestarsi in forme più dirette e più tragiche. In quest'ottica si muove liberamente il lavoro Football, football, che il regista bosniaco Haris Pasovic ha concepito e messo in scena al debutto della terza edizione del Teatro Festival Italia, avvalendosi di una formazione internazionale di attori-danzatori di considerevole capacità atletica. Un'ambientazione accennata colloca la scena nella periferia degradata di Napoli (ma in realtà di una metropoli qualsiasi) ove un gruppo di giovani, contigui a pratiche violente e forse a rischio criminale, affida al calcio la speranza o l'illusione del riscatto.
Per realizzare questo progetto Pasovic ha soggiornato come osservatore a Napoli per alcuni mesi, persuaso della singolare forza suggestiva che il calcio assume nello specifico della società partenopea, e intenzionato perciò ad assorbirne i segni e le abitudini; ed ha concepito uno spettacolo multiforme e vario, fatto di piccole storie comuni e di vorticosa fisicità, minimale nella drammaturgia e potente nel gesto scenico, costantemente concentrato sulla bellezza della pratica sportiva, che diventa a ripetizione un'occasione di danza corale.
L'esito sulla scena ha tuttavia un sapore piuttosto incerto, sollevando nello spettatore la sensazione di un lavoro situato ancora nella fase di studio: le vicende dei personaggi sono appena accennate, l'azione scenica non ha una coesione di lungo respiro, i singoli quadri muovono energia ma raccontano poco. In un progetto narrativo così apertamente leggibile lo spettatore vorrebbe esser travolto dagli effetti simbolici e dalla costruzione estetica; ma entrambi questi aspetti appaiono soltanto tratteggiati in prospettiva di una forma testuale che s'intravede appena. Così la vigorosa performance del cast, pur impegnativa e generosa, non raggiunge coerentemente la platea, muovendosi entro un disegno drammaturgico appena in embrione.
Anche i segni della napoletanità, che dovrebbero acclimare la scena alla cultura della città, si disattivano nel corto circuito con le consuetudini culturali dello spettatore, che in questo caso è per lo più napoletano: ciò che per un osservatore dell'Est europeo, curioso e in piena esplorazione, appare come stimolante segnale di una comunità poco conosciuta, per il fruitore autoctono ritorna come luogo comune iperfrequentato, nonostante la volenterosa rivisitazione. La Tammurriata nera, solo per fare un esempio, intonata da uno dei protagonisti in una versione leggermente adattata, appartiene ad un repertorio talmente logorato dall’uso che in uno spettatore italiano può sollecitare fastidio e distanza, anziché presa emotiva.
Molto elegante e preciso il disegno delle luci, concepito dallo stesso Pasovic e da Barbara Mugnai; pregevoli ed originali le musiche eseguite in parte dal vivo dal compositore Philip Tan, mentre di minore utilità risulta il supporto video animato su due megaschermi ai lati della scena. Piccolo corollario etico: l’incasso di questo spettacolo sarà devoluto al progetto Dottor Sorriso per le attività di comicoterapia nei reparti pediatrici dell’ospedale Monaldi di Napoli.